Nacque nel 1898 a Malè, in Val di Sole, dove il padre Augusto lavorava come ingegnere forestale. Nel 1908 si trasferì con la famiglia a Rovereto e Armani si iscrisse ai corsi della Scuola Reale Elisabettina. Fu un passaggio traumatico, dalla selvaggia e spensierata vita sui prati a quella più ordinata di una città, ma ben presto, l’interesse per Io studio e soprattutto per l’arte prese il sopravvento. Il nonno paterno era Basilio Armani che verso la fine della prima metà dell’Ottocento era divenuto famoso per le sue varie vedute di Rovereto, Riva, Arco, ed in seguito anche di Trento ed altri luoghi. Verso il 1860, mentre insegnava disegno a mano libera alle Scuole Reali di Trento, pubblicò anche un “Manuale” per imparare a disegnare “dal vero ed a mente”. Con gli anni Novanta, ormai ritirato dal lavoro, si trasferì presso il figlio a Malè, dove morì giusto un anno dopo la nascita del nipotino Ernesto. Insomma, un precedente impegnativo per il giovane artista. Inoltre, anche il padre aveva mostrato una non comune vena artistica, realizzando espressamente per lui vari disegni ed acquerelli sul soggetto degli animali, per distrarlo ed interessarlo durante le lunghe degenze cui era costretto a letto, perché di salute cagionevole. Gli insegnamenti del prof. Comel, insegnante di disegno a mano libera ed acquerello alla Scuola Reale, trovarono in Armani un terreno fertilissimo, oltretutto per quanto concerneva la tecnica dell’acquerello. Chiamato alle armi, non se la sentì, come molti irredentisti, di fuggire in Italia, o meglio di fuggire da una terra che tutto sommato riteneva la sua Patria, lui che sino a 9 anni era cresciuto in una valle montana, lontano dai clamori politici. All’inizio frequentò la Scuola Ufficiali a Troppau, in Slesia, e quindi il suo reggimento fu trasferito in Galizia, in una zona dove la guerra era passata da poco, lasciando rovine e miseria. La Galizia fu per Armani una scuola di vita, un’esperienza che in seguito avrà un ruolo determinante nelle scelte dell’artista una volta rientrato in Italia. Finita la guerra, sulla via del rientro (ai primi del 1919), Armani si ritrovò a Vienna dove d’impulso s’iscrisse all’Accademia di Belle Arti. Scelta quasi ovvia per chi era cresciuto, seppure in posizione marginale, nell’ambito della cultura Jugendstil, e con una concezione ben radicata dei concetti di «arte applicata» e «decorazione». Tuttavia, non vi fu tempo di seguirne i corsi perché fu chiamato a Rovereto. La sua città era gravemente danneggiata e ferita dagli eventi bellici, e Armani si trovò così doppiamente occupato: da una parte a ripristinare la propria casa, e dall’altra a girovagare per la città, e per i paesi vicini, per fissare con i suoi disegni e con suggestivi acquerelli, tutta la drammaticità di quei primi momenti di pace, e lo sgomento di chi, al ritorno, trovava tutto distrutto. Di lì a poco fu ancora in viaggio: questa volta per Milano, dove il padre lo volle iscrivere alla facoltà di Architettura, una materia che a prima vista riteneva aliena alla sua sensibilità artistica ma che ben presto capì quanto fosse invece utile al suo lavoro di pittore. All’inizio Armani sfruttò la sua perizia di acquerellista per realizzare a compenso le tavole a colori da allegare alle tesi dei tanti colleghi, certo meno abili di lui, e che in questo modo qualificavano il loro lavoro. Nel 1922 giunse la Laurea, e tuttavia Armani si mostrò subito insofferente a qualunque impiego sia nella pubblica amministrazione che in qualche studio. Inoltre, le possibilità di lavoro in ambito locale erano davvero scarse, mentre d’altra parte la passione per il disegno e l’acquerello era in lui sempre più forte. Così, verso la fine dell’anno, si avventurò verso quella che a quel tempo era ritenuta la meta per ogni artista di area mitteleuropea: Berlino. In realtà, il soggiorno berlinese, sebbene ricco di suggestioni e di esperienze che certo furono di arricchimento culturale per il giovane artista non portò alcun beneficio alla sua carriera, né tanto meno al suo portafoglio. Armani giunse a Berlino, ospite dell’amico Luciano Baldessari, proprio nel momento in cui stava imperversando una selvaggia inflazione che costringeva, ad esempio, a recarsi dal panettiere con alcuni milioni di marchi per riuscire ad ottenere una pagnotta. Comunque, fu proprio a Berlino che nella primavera del 1923 Armani riuscì ad allestire la sua prima personale al Kurfürstendamm, proprio assieme a Baldessari. La sua bravura fu notata ed ottenne lusinghieri apprezzamenti sulla stampa, un fatto che lo aiutò ad introdursi nell’ambiente cinematografico dove si prestò come scenografo. Ma la complessa realtà del mondo della celluloide si rivelò ben più insidiosa del previsto, ma comunque fu un’esperienza importante proprio perché Berlino in quel momento era sicuramente all’avanguardia sia nella tecnica che nella concezione di film modernisti.
II 1923 lo richiamò brevemente a Rovereto per motivi famigliari, ma quasi subito si portò a Milano dove la sua breve esperienza cinematografica berlinese Io introdusse alla Milano-Film con compiti di direzione tecnica e scenografica. Le cose però non andarono meglio che a Berlino, soprattutto per l’arretratezza tecnica degli stabilimenti cinematografici milanesi, e anche per la grave crisi economica che imperversava ovunque. Alla fine la Milano-Film chiuse ingloriosamente e Armani si salvò solo perché il direttore degli stabilimenti, l’avvocato Nino Valentini, che Io aveva preso a simpatia, fu chiamato a dirigere la Galleria “Bottega di Poesia” nella centralissima via Montenapoleone, nei cui spazi, sulla fine del 1926, invitò l’artista trentino ad esporre in una prestigiosa personale con catalogo e presentazione di Raffaele Calzini, allora critico di grande fama. Fu un grande successo. Di lì a poco, già nei primi mesi del 1927 iniziò così un lungo carosello di mostre, viaggi, e lavoro incessante. Come a Brescia, dove alla personale alla “Bottega d’Arte” i suoi acquerelli che ritraevano vari scorci della città andarono letteralmente a ruba sin dai primi giorni della mostra. Il successo bresciano gli procurò un altro prestigioso incarico, chiamato da D’Annunzio a Salò per ritrarre vari angoli del Vittoriale con una serie di acquerelli che poi saranno pubblicati anche nella rivista “Il Trentino”, nell’agosto 1927. Poi venne la grande personale di Trieste, alla Galleria Michelazzi, dove Armani espose opere di grande impegno e di notevole dimensione, dipinte a Venezia, Firenze e Roma, e dove il Museo Revoltella acquistò una delle opere più belle. Le critiche, poi, come quella di Silvio Benco su «Il Piccolo», furono entusiaste, rimarcando il fatto che nonostante la sua ottima preparazione “nordica e le sue esperienze europee, l’arte dell’artista era nonostante tutto tipicamente italiana, con un accento Settecentesco di scuola Lombarda, proprio per quel suo gusto del comporre arioso e cromaticamente armonioso”. Ma la mostra di Trieste fu importante anche per un’altra circostanza, e cioè quella di introdurre una nuova coordinata nel lavoro dell’artista, e cioè quella del ritratto. Dal 1928 iniziò un girovagare per il Mondo, alla ricerca di sempre nuove fonti d’ispirazione. Il soggiorno olandese, nel corso del 1928, fu un grande successo, anche grazie ai buoni uffici di un professore universitario italiano, Romano Guarneri, che lo introdusse presso le più importanti gallerie di Amsterdam, Rotterdam, Tilburg e L’Aja, dove espose nel 1929 una serie di vedute italiane appositamente realizzate nel corso di un anno di continui andirivieni dall’Italia. Ed anche in questo caso, musei ed istituzioni si contesero le sue opere.
Nel 1929, sull’onda del successo olandese, Armani si trasferì ad Anversa, accompagnato da una lunga fila di ottime recensioni cui s’aggiunse quella uscita sul prestigioso “La Metropole”, il 5 maggio 1929, ad opera di Henri de Curzon che lo spinse a studiare e dipingere un nuovo soggetto che si rivelò appassionante per l’artista: quello dei carri e dei cavalli fiamminghi. Nel corso degli anni Venti l’artista, grazie ai suoi vari contatti milanesi, si dedicò molto anche alla realizzazione di grafica pubblicitaria, specie di carattere turistico per l’Enit, ed in particolare realizzò vari bozzetti in bianconero, a china, in puro stile Art Déco, che vennero pubblicati sui quotidiani nazionali. Nel 1930 Armani rientrò a Rovereto e conobbe il critico Carlo Piovan che, entusiasta del suo lavoro, lo volle presentare e farlo conoscere a Trento, con una grande mostra al Circolo Sociale, cui seguirono altre mostre minori nelle gallerie private. Armani era ormai conosciuto a casa sua, e spesso era invitato alle feste del bel mondo roveretano. Così accadde che il 14 maggio 1931, in uno di questi favolosi veglioni che si organizzavano spesso al Salone Eppler di Rovereto, Armani incontrò una delicata fanciulla tutta vestita di pizzo azzurro. Per la prima volta gli sorse il pensiero di sposarsi. “O quella o nessuna!”, pensò. Temperamento scattante e focoso, senza porre indugi Armani affrontò la ragazza e si dichiarò. Anzi fece di più: fissò la data delle nozze di lì ad un anno. Antonietta Noriller, come appunto si chiamava la fanciulla, colpita da tanta determinazione disse timidamente di sì. L’artista ripartì quasi subito per allestire alcune mostre a Milano, Genova e Biella, onde racimolare un po’ di denaro. Quale residenza della giovane coppia fu scelta Milano, che certo offriva maggiori opportunità di lavoro, dove Armani trovò una bella casa spaziosa e riprese i contatti con i galleristi ed i suoi estimatori. Nel frattempo l’anno preventivato passò in fretta e giunse il fatidico 14 maggio 1932, il giorno delle nozze. Ma già il lavoro Io portava continuamente in giro per l’Italia e, recentemente, spesso a Genova dove aveva sempre più richieste di ritratti, soprattutto per bambini. Così, per non lasciare da sola per lunghi periodi la giovane moglie, pensò bene di prendere casa in riviera.
Nel 1934 l’artista riusci anche a pubblicare un libro di suoi disegni sul tema dei bambini (II Bimbo nell’arte) che dedicò a Maria Pia di Savoia. Per Armani furono anni di grande girovagare, per lavoro e per studio, sempre più interessato alle problematiche del rapporto luce-ombra-colore nelle grandi architetture, soprattutto quelle delle cattedrali, sia negli esterni che negli interni. Logico, dunque, pensare ad un viaggio di studio in Francia, cuore ed esaltazione delle cattedrali gotiche: da Notre Dame di Parigi, a Chartres, ad Amiens, Rouen e Reims. Si avviò così un periodo fecondissimo e di grande entusiasmo per il suo lavoro nel corso del quale Armani realizzò moltissimi acquerelli di grandi dimensioni, che per sua fortuna riuscì a vendere quasi immediatamente. Nel 1937 decise però di dare vita ad un progetto a lungo cullato, e cioè quello di tentare, anche lui, la carta del “nuovo mondo”: l’America! I suoi contatti con l’ambiente pubblicitario milanese, dove nel corso degli anni Venti primeggiava Achille Lucien Mauzan, l’avevano convinto a rivolgersi verso l’America del Sud. Laggiù, infatti, il grande cartellonista italo-francese, aveva mietuto successi e lavoro. Il suo arrivo in Argentina, a Buenos Aires, avvenne sotto i migliori auspici: assieme all’amico Alberto Cecconi (con cui andava esponendo da alcuni anni) fu atteso sulla banchina del porto da fotografi e giornalisti per una intervista. Merito della Galleria Gutierrez che aveva organizzato la sua esposizione sotto il patrocinio dell’Ambasciata d’Italia. La terra argentina fu dunque per Armani fonte di grandi soddisfazioni professionali e di nuove ispirazioni. Da una parte, un suo ritratto che ritraeva una facoltosa signora di Buenos Aires, e che fu pubblicato sui più importanti giornali, gli procurò moltissima notorietà e decine di richieste di ritratti, dall’altra, la Boca, il grandioso porto della capitale argentina, lo riportò alle esperienze olandesi e si mise a ritrarre i grandi piroscafi, i vascelli ed i barconi, e le gru che scaricavano i mercantili, ed i cavalli che trasportavano le merci. E poi ancora via, prima in Brasile e poi in Uruguay, dove allestì altre mostre e realizzò molti altri ritratti. Nel 1938 fu la volta del rientro, per raggiungere la moglie che l’aveva preceduto di qualche mese a Napoli per evitare di viaggiare in gravidanza troppo avanzata. E infatti proprio in quell’anno Armani divenne padre. Ma prima di rientrare a Genova, l’estate del 1938 la passò ad Anacapri, ospite con la moglie dello scrittore Axel Munthe. Poi, con l’autunno avvenne il definitivo rientro nella casa di Genova, dove già l’attendevano varie commesse di ritratti, ancora una volta specie di bambini, un lavoro che lo occupò per gran parte di quel tragico 1939 che segnò lo scoppio della 2 a guerra mondiale. L’estate dell’anno seguente, nonostante l’ingresso dell’Italia nelle ostilità, lo passò assieme al pittore Alberto Cecconi girovagando per la Toscana e l’Umbria, e dipingendo paesaggi suggestivi. Nel 1941 Armani, a 43 anni, fu richiamato alle armi, ma grazie all’aiuto di un suo amico fu esonerato perché ufficialmente assunto in uno stabilimento di “utilità bellica”. Poi, con il 1942 iniziarono i bombardamenti e la prudenza consigliò di rientrare in Trentino, in Val di Non, dove ritrovò un clima sereno e poté dedicarsi completamente alla pittura, specie di paesaggio. La bellezza delle montagne che non vedeva da tempo Io ispirò particolarmente, tanto che passò lunghi periodi al rifugio sulla Paganella per riprendere le cime e le valli in tutte le possibili condizioni di luce. Poi, per riuscire a sopportare il lungo e forzato isolamento a causa di un guerra che sembrava interminabile, si dedicò a ritrarre anche le bellezze del sottobosco, e dei prati fioriti in primavera.
Sul finire del 1944, Armani non riuscendo più a rimanere in valle riuscì ad allestire una mostra a Milano, nonostante le gravi difficoltà di trasporto sotto i bombardamenti. La mostra fu un grosso successo e dopo quindici giorni, alla chiusura dell’esposizione, Armani approfittò del passaggio su un auto privata di un suo vecchio cliente tedesco che, fiutando ormai l’imminente fine della guerra, voleva “sfollare” a Merano, passando appunto per la Val di Non. Poi, dopo il tracollo finale, finalmente la pace e il ritorno alla casa di Genova e, quasi subito anche alle mostre: infatti il materiale da esporre (realizzato nei lunghi anni di sfollamento) era tanto. Ma quegli anni di forzato ritiro lasciarono il segno. Armani un po’ alla volta iniziò a pensare ad una casa lontana dal clamore e dalla vita frenetica della città: propriamente ad un “eremo”, come egli stesso la definì. Dopo una breve ricerca trovò il luogo adatto, tra il verde di una pineta presso Bardonecchia. Progetto, autorizzazioni e lavori, e dopo circa un anno, la famiglia Armani ne prese possesso. Era il 1951, Armani aveva 53 anni ed in sostanza doveva ricominciare tutto da zero, in un paese di pochi abitanti, poco lontano d Torino, ma lontanissimo dai suoi amici e dai suoi abituali clienti. Così, suo malgrado Armani dovette “reinventarsi” architetto, imparando quello che non aveva appreso a scuola dai muratori. Si specializzò così in architettura di montagna, propugnando anche con conferenze e pubblicazioni l’uso di nuovi materiali isolanti, che per allora erano un’assoluta novità, e perciò erano visti anche con diffidenza o come una stranezza. Tuttavia la sua linea s’impose e ottenne molti incarichi per ville, stazioni climatiche, alberghi, fra cui anche il complesso turistico di Bielmonte che gli fu affidato dal conte Zegna. L’architettura, però, stava divenendo una professione a tempo pieno, quasi asfissiante, e non gli lasciava più né il tempo né le forze per la pittura, e così, con il 1958 Armani decise che la parentesi architettonica poteva dirsi conclusa. Mente instancabile e creativa, voleva dedicarsi ad un’attività artistico-decorativa che riuscisse a coinvolgere anche la moglie ed il figlio. Pensò all’oreficeria artistica, dove si potevano mettere a frutto le nuove idee di metallizzazione e doratura di autentici elementi floreali messe a punto nell’estate del 1959 dal figlio Giuliano. Così, dopo oltre un anno di altri studi e ricerche, nel 1961, nell’ambito delle celebrazioni per il Centenario dell’Unità d’Italia tenute a Torino al Palazzo delle Esposizioni al Valentino, la “Auriflor”, come era stata chiamata la nuova ditta, si presentò al pubblico ottenendo immediatamente grandi consensi di critica. Tuttavia il richiamo della pittura era sempre forte, e per questo Armani riuscì a concretizzare altri viaggi in Francia e soprattutto in Inghilterra, a Londra, che ritrasse nella suggestione delle sue nebbie e del suo smog, oggi quasi del tutto scomparso. Alla fine degli anni Sessanta, però, questo continuo girovagare per il mondo gli fece ritornare la nostalgia per la sua Rovereto. Ancora una volta Armani diede un colpo di spugna alle sue certezze, per ricominciare da capo. A malincuore, ma ormai deciso, salutò il suo “eremo” di Bardonecchia, cedette tutta l’attività orafa al figlio, e ritornò a Rovereto, dove incontrò dopo quarant’anni i pochi amici ancora vivi. Lo salutarono, in quel 1970, il critico Carlo Filippo Piovan e gli editori Manfrini, che gli dedicarono una bella monografia che fu il primo sprone a riprendere tavolozze e pennelli. E va detto che i lavori di questi ultimi anni roveretani non furono certo le solite opere senili di un pittore stanco, ma anzi si dimostrarono cariche di una grande vitalità e di uno struggente entusiasmo. Si può dire che a Rovereto Armani rivisse una vera e propria seconda giovinezza, fitta di impegni e soddisfazioni, come la seconda monografia edita ancora una volta dagli Editori Manfrini per il suo 80° compleanno, nel 1978, con presentazione di Talieno Manfrini, o come la varie mostre antologiche del 1970, 1973, 1978 e 1985, che lo commossero proprio per quel bagno di folla e di appassionati che gli fecero rivivere le migliori esperienze giovanili. Nel 1982, ancora dagli Editori Manfrini, uscì la sua monumentale autobiografia, un testo insostituibile per conoscerlo a fondo. Ernesto Giuliano Armani morì nel 1986. La moglie, Antonietta Noriller lo seguì nel 1988.
Dal catalogo Ernesto Giuliano Armani. Omaggio nel centenario della nascita. 1898 – 1998, a cura di Maurizio Scudiero, Edizioni Galleria Dusatti